venerdì 29 aprile 2011

Meeting siciliano delle arti e della musica

L’ARSENALE

FEDERAZIONE SICILIANA DELLE ARTI E DELLA MUSICA

Presenta

Primo “Meeting siciliano delle arti e della musica”

Palermo

Venerdì 29 aprile 2011, 19,00

Nuovo Montevergini, Atelier

Sabato 30 aprile 2011, 18,00

Nuovo Montevergini, Teatro e Atelier

Una terra riscopre la propria dignità quando comincia a pensarsi come espressione di una cultura originale e autonoma. Quando fa della propria identità un progetto di futuro aperto. Quando fa dei propri bisogni UN CAPOLAVORO.

Su questo presupposto è nato L’Arsenale, libera federazione di musicisti e di arti e mestieri della cultura che vede nel territorio siciliano un unico laboratorio di indipendenza in cui sperimentare.

Una federazione di artisti siciliani che si aggrega dopo la “chiamata” di uno dei musicisti di maggior risalto della scena indipendente italiana: Cesare Basile.


L’Arsenale promuove una cultura del FARE, dello SCAMBIO e dell’INCONTRO e dà impulso a forme di mutualismo e supporto nei campi specifici d’appartenenza.

L’Arsenale crede nel lavoro della cultura e nella cultura del lavoro, vuole produrre e ospitare arte in Sicilia per riappropriarsi dei suoi luoghi, sottrarli all’impoverimento e renderli risorsa; si rivolge indistintamente a tutte le categorie di lavoratori e operatori culturali allo scopo di promuoverne e tutelarne le peculiarità artigianali e in quanto tali uniche.

Andare via in cerca di opportunità è stata la storia di molti artisti siciliani che adesso le opportunità vogliono crearsele nella loro terra.


Le due giornate del 29 e 30 aprile sono le prime di una serie di meeting che hanno lo scopo di presentare L’Arsenale: musica, arte, teatro, editoria ed artigianato per mostrare al pubblico il “fare” della fucina siciliana.

Le due giornate di Palermo si svolgeranno all’interno del Teatro Nuovo Montevergini, una vera e propria vetrina della nuova scena culturale siciliana.

Ad alternarsi sul palco saranno i grandi nomi della musica siciliana: Black Eyed Dog, Cesare Basile, Dimartino, Entourage, Feldmann, Gentless3, Hank, Improvvisatore Involontario, Iotatola, Le Formiche, Long Hair In Three Stages, Marlowe, Music For Eleven Instruments, N’Kantu d’Aziz, Nicolò Carnesi, Oratio, Orchestra Instabile Dis-accordo, Oswald Black Banda, Sonia Brex, The Second Grace, Ultravixen, Waines e Zuma.

La musica sarà presente al meeting anche con le etichette discografiche che operano sul territorio siciliano: 800A, Fitzcarraldo, Imago Sound, Improvvisatore Involontario, Urtovox e Wild Love .

A calcare la “scena”, per quanto riguarda il teatro sarà la compagnia dei Quartiatri e lo spettacolo Librino di e con Luciano Bruno.

Ampio spazio anche alla letteratura con i reading degli scrittori Sergio Cataldi, Angelo Orlando Meloni, Alli Traina, Nino Vetri, e la presenza delle case editrici siciliane :duepunti, Dario Flaccovio, Navarra, Primitivo e Sellerio.

Nutrito anche il campo delle arti visive con le opere di Riccardo Brugnone, Mariangela Di Domenico, Manuela Di Pisa, Loredana Grasso, Luca Mannino, Domenico Pellegrino, Roberto Riili, Natale Sansone, Igor Scalisi Palminteri, Jano Sicura, Maria Pia Spataro e Corrado Vasquez.

Spazio anche alle realtà artigianali con Marta e Giuseppe Cannuscio e i loro UDU Drum e con Giulio Cascone e Sebastiano Cataudo e le loro batterie di rame e metacrilato CQuadro DrumLab.


29 APRILE NUOVO MONTEVERGINI (Teatro)

19.00 inaugurazione mostra arti visive (Manuela Di Pisa, Maria Pia Spataro, Mariangela Di Domenico, Domenico Pellegrino, Corrado L. Vasquez,Rachele Tosto, Antonio Caia, Natale Sansone, Igor Scalisi Palminteri, Jano Sicura, Loredana Grasso, Roberto Riili, Riccardo Brugnone, Luca Mannino)

20.15 Teatro: DOLLY OUT a cura di Compagnia Quartiatri (PA)

20.45 Teatro: LIBRINO di Luciano Bruno, Giuseppe Scatà, Orazio Condorelli, con Luciano Bruno (CT)

29 APRILE NUOVO MONTEVERGINI (Atelier)

21.45 Erica Mou (special guest TEDX)

22.15 Nicolò Carnesi (PA)

22.45 Le Formiche (PA)

23.15 Entourage (ME)

23.45 Hank (PA)

00.15 Zuma (CT)

00.45 Music for eleven instruments (CL)

01.15 Ultravixen (CT)

01.45 nKantu d'Aziz (PA)

dj set durante i cambi palco a cura di Paolo Mei

30 APRILE NUOVO MONTEVERGINI (Atelier)

19.00 Iotatola + Quinzio Quiescenti + Igor Scalisi Palminteri (PA)

19.30 reading Angelo Orlando Meloni

20.00 The Second Grace (PA)

20.30 Sonia Brex (CT - Berlino)

21.00 reading Sergio Cataldi (Navarra)

21.15 Dimartino (PA)

21.45 reading Nino Vetri (Sellerio)

22.00 Black Eyed Dog (TP)

22.20 reading Lo Zoo di :duepunti

22.40 Oratio (ME)

23.00 reading Alli Traina (Dario Flaccovio)

23.20 Osvald Black Banda (CT)

30 APRILE NUOVO MONTEVERGINI (Teatro)

22.00 Orchesta IN-stabile Dis/accordo [O.I.D.] by Fitzcarraldo Rec. (PA)

22.35 Naked Musicians by Improvvisatore Involontario

23.00 Gentless3 (RG)

23.20 Fothcoming 3 by Improvvisatore Involontario

23.35 Marlowe (CL)

23.55 Shinybeast by Improvvisatore Involontario

00.05 Feldmann (CT)

00.25 Skrunch by Improvvisatore Involontario

00.40 Long hair in three stages (CT)

01.10 Cesare Basile (CT)

01.35 Waines (PA)

Ingresso libero

mercoledì 23 marzo 2011

Long hair in three stages live @ Lomax (Catania)

Finalmente una band alla vecchia maniera: musica solida, testi impegnati e una presenza scenica che fa a meno di abitini trendy.

La prima cosa che fanno i Long hair in three stages una volta sul palco è prenderti a pugni. Perché quando la musica parte la sensazione non può essere che quella. Altro che chitarrine e synth, loro portano sul palco un passato fatto di noise, shoegaze e punk e tutta la rabbia e la denuncia dei testi delle loro canzoni.

I Long hair in three stages (Emanuele Finocchiaro alla batteria, Roberto Risicato al basso, Fabio Corsaro alla chitarra e Giuseppe Iacobaci alla voce) raccontano storie e lo fanno attraverso il rock anche se, come loro stessi dicono sul palco, “le canzoni politiche non hanno mai risolto niente, a parte far divertire con del sano rock”. In sala un pubblico affezionato che mostra di aver accolto molto bene il loro nuovo album “Like a fire in a cave”, registrato allo Zen Arcade di Catania.

Il concerto si apre con “Breaking the horizon of expectation”, che pare più una manifestazione di intenti. Al microfono Giuseppe ha la voce di un Brian Molko meno finocchio e più incazzato mentre racconta e canta della chiusura dei luoghi di cultura, ricordando la vergogna della chiusura del centro sociale Experia di Catania a cui hanno dedicato una canzone cantata metà in inglese e metà in italiano, perché il messaggio arrivi senza fraintendimenti (anche se nessuno sembra mettere in dubbio quello “shame on you” gridato contro le polizia). Si passa poi ad “Oil” che tratta la ricerca del petrolio in Sicilia e a “The buyer” dedicata ad un certo Silvio (“Silvio rimembri ancor quel tempo della tua vita mortale…”).

Sul palco nel frattempo non c’è nessuno che faccia meno casino dell’altro, con una chitarra che pare essere un’onnipresente moglie gelosa pronta a ribattere ad ogni verso del cantante, con un basso ingombrante come non se ne sentivano da tempo ed una batteria che esplode e dà il suo meglio nella parte finale del concerto, proprio nel momento in cui la maggior parte dei batteristi invece si adagia. Il pubblico li ama e glielo dimostra ampiamente, mentre il cantante ad un certo punto si butta per terra esausto. Ed è questo il piacere dello sporco, dello sporcarsi di musica e di sporcare i suoni.

Hanno talmente tante storie da raccontare i Long hair in three stages che a fine concerto pare quasi aver visto un film. E proprio a fine concerto ringraziano il loro pubblico per essere in sala perché “ormai non è facile che la gente vada ai concerti senza dj-set e stacchettini vari”. Perché in fondo tutti coloro i quali si fanno chiamare “indie” non sono altro che “tronisti travestiti”.

Per il resto credo di essere riuscita a rientrare nei limiti “imposti” dalla band, che dopo il concerto sperava che il mio report non contenesse più di tre delle seguenti cose: (1) dei ghirigori satanici aventi per protagonista il gatto Felix; (2) elenco di antidolorifici o marche di tappi per le orecchie da non dimenticare la prossima volta; (3) un disegno di un tizio pelato con un paletto di frassino conficcato nel cuore; (4) varie bestemmie disperate ispirate dalla temperatura gelida dei gradini stessi; (5) varie e ripetute espressioni di attesa nei confronti della mezzanotte; (6) il numero di telefono del coreografo di thom yorke da passare al cantante; (7) espressioni di giubilo e simpatia per i minisiparietti audio del bassista; e soprattutto, dio ci scampi: (8) "il mattino ha l'oro in bocca il mattino ha l'oro in bocca il mattino ha l'oro in bocca il mattino ha l'oro in bocca il mattino ha l'oro in bocca il mattino ha l'oro in bocca il mattino ha l'oro in bocca il mattino ha l'oro in bocca il mattino ha l'oro in bocca il mattino ha l'oro in bocca il mattino ha l'oro in bocca il mattino ha l'oro in bocca il mattino ha l'oro in bocca"; (9) "strabiliante sintesi di rasoiate noise e cupezze wave".
Vanessa Castronovo
foto di Fabio Speciale

lunedì 14 marzo 2011

Waines live @ San Cataldo

Non volevo scrivere, non stavolta, giuro. Sono andata al concerto con la convinzione di essere, per una volta, solo e soltanto una del pubblico. Ma come facevo a non raccontarvi quel che è successo su quel palco?

E’ passato quasi un anno dall’ultima volta che ho visto i Waines su un palco ed ora li ritrovo alla vigilia del debutto ufficiale di STO, il loro nuovo album in uscita ad aprile.


Quel che si nota immediatamente, fin dal primo accordo, è una potenza nuova e diversa, più subdola e interiore, che contamina anche i brani del loro album precedente. Io mi aspettavo i Waines di sempre, quelli che ho imparato a conoscere bene sul palco, e loro invece stupiscono reinventandosi da capo, con un suono più strutturato creato solo da due chitarre ed una batteria.

Fabio Rizzo, Roberto Cammarata e Ferdinando Piccoli sono “solo” in tre e ti sembra quasi impossibile che riescano a fare tutto da soli sul palco senza avvalersi di basi preregistrate o di giri armonici mandati in loop. E invece è tutto lì, nudo e crudo sul palco, semplicemente suonato da Dio, senza basso né synth: non un miracolo, solo musicisti veri che sanno fare il loro lavoro.

Ineccepibili nell’esecuzione e nella presenza scenica, capaci di tirare per i capelli il pubblico dalla loro parte, posso affermare senza ombra di dubbio e senza pericolo di smentita che i Waines sono fatti per altri palchi, più grandi e certamente internazionali.

Il pubblico è rapito e si ferma a metà, con la bocca aperta, a guardare quel che accade sul palco, con un Ferdinando indemoniato dietro alla sua batteria, un Rob che sembra essere stato teletrasportato dagli anni ’70 e le dita di Fabio che non riesci a seguire sulla tastiera della sua chitarra.

È rock di quello puro, è blues di quello genuino, ma è anche un bordello elettronico e sperimentazione. La differenza fra i vecchi brani e quelli nuovi la si nota all’istante ed è più una sensazione epidermica, con i brani nuovi che sono carichi di una energia che ti prende allo stomaco, ti entra dentro ed io, non so per la febbre che mi sta salendo o se invece sono loro, mi sento tremare le gambe. È difficile parlare della loro musica senza scomodare il sesso.

I Waines sono dei professionisti che, ripeto, meritano di essere mandati a pedate ai vertici delle classifiche e sui palchi delle grandi occasioni. E se non credete alle mie parole, perché io sono una loro fan e pensate non abbia oggettività, vi sfido ad andare a vedere un loro concerto e trovare in loro qualcosa che non va.
L’unico che riesce a farlo è Fabio Rizzo che, preciso al millimetro, dirà sempre che si può fare di più, che c’è sempre da migliorare.

Dei pezzi nuovi, dell’impatto del nuovo album sul pubblico e su quel che sta dietro STO però ve ne parlerò però dopo la presentazione ufficiale del disco il 15 aprile ai Candelai di Palermo e il 16 aprile alla Lomax di Catania.

Siete in tempo per venire a vedere con i vostri occhi se vi sto raccontando cazzate.

Vanessa Castronovo

lunedì 7 marzo 2011

Le Formiche - Cronache dal latifondo

Chi pensava che, a 150 anni esatti dall'Unità d'Italia, l'idea di latifondo fosse ormai ampiamente superata, si sbaglia di grosso.
Forse non ci sono, almeno sulla carta, i servi della gleba, ma basta fare una veloce analisi della situazione in Italia per rendersi conto che, in fondo, nulla è cambiato rispetto a quei tempi. Uno Stato diviso tra i grandi "proprietari terrieri" che, dall'alto dei loro lussi e delle loro ville appena fuori città, decidono le sorti dei piccoli proletari, veri e propri servi del padrone, sfruttati e privati di ogni dignità sociale e personale.




Non c'è da stupirsi dunque che, da una terra storicamente sfruttata e spremuta fino al midollo come la Sicilia, arrivi carico di rabbia "Cronache dal Latifondo" Ep de Le Formiche, registrato in una delle più interessanti realtà produttive dell'isola, il "The Cave" di Catania.

Come gli schiavi delle piantagioni degli USA sfogavano il loro dolore nel blues, nei canti soul e nelle preghiere gospel rivolte a quel Dio che sembrava averli abbandonati, così Le Formiche cantano la propria rabbia, sanguinando e sudando sui loro semplici attrezzi da lavoro: chitarre, bassi e batterie. Un disco volutamente semplice, volutamente diretto, attitudine punk (chi conosce Giuseppe Minasola, Carmelo Drago e Roberto Calabrese ricorderà i loro esordi come Box11a, sonorità punk alla Backyard Babies e testi al vetriolo) e suoni caldi come nella migliore tradizione del blues/rock.

Le "Cronache dal latifondo" de Le Formiche sono fugaci racconti, spaccati di vita quotidiana di un proletario (a questo proposito, ottima idea quella di registrare e riproporre in "Ora non mi va" i suoni di uno dei mercati palermitani, cuore pulsante del popolo), ritornelli semplici e testi ironicamente cinici ("dallo specchio ogni mattina mi guarda un'idiota / cosa credi di cambiare, la sorte e la tua strada / non serve a niente romperti le ossa / io non posso cambiare la mia vita”).

Il primo pezzo del disco "Non rido più" inizia con un coinvolgente riff incrociato di voci batteria e chitarre, che sembra dire: "Ok, adesso ascoltate quello che abbiamo da dire e urlatelo con noi". Non è un caso infatti, a mio parere, che lo stesso riff sia riproposto anche a chiusura del brano, questa volta però con in primo piano solo le voci, a simboleggiare che è arrivata l'ora di farsi sentire chiaramente.
In neanche tre minuti del pezzo iniziale Le Formiche lasciano subito intendere i loro propositi, coinvolgere l'ascoltatore nelle proprie storie, renderlo parte integrante delle canzoni, dei testi, dei cori.

Secondo brano è "Polvere e regole", vecchio cavallo di battaglia dei Box11a, ripreso in chiave cavalcata blues, echi di country rock e bluegrass (le backing vocals che danno dinamica alla strofa e il mandolino suonato da Roberto, poliedrico batterista).

In poco più di cinque minuti si è già arrivati alla terza canzone, "Ora non mi va", anch'essa di chiaro stampo rock'n'roll, e ci si sente davvero catapultati nell'universo de Le Formiche (che, diciamocelo, è comune alla maggior parte di noi - musicisti, studenti, laureati, operai, disoccupati - o almeno di chi "non hanno il padre al Comune o la mamma alla Regione (...) e si spacca i reni (...) non per fare qualche lira per la chitarra, ma per mangiare") e ci si ritrova inconsciamente a far parte delle tre, dieci, cento, mille voci del coro, ad urlare "ORA NON MI VA!". Si, le Formiche hanno raggiunto il loro scopo, adesso non sono solo loro ad urlare, ma è il popolo, sono i servi della gleba ad urlare, a cantare, a puntare il dito.

E non a caso l'ultimo canzone di "Cronache dal latifondo" è una grande cover italiana, di un certo Giorgio Gaber, "Io non mi sento italiano". Un inno collettivo di un pilastro della musica "socialmente utile" italiana, a chiusura di un album volutamente popolare.


Forse si, le liriche ricercate e le musiche tecnicamente ineccepibili, possono essere un ottimo nutrimento per le orecchie, ma quando si finisce di ascoltare un disco così diretto, scritto da ragazzi di 20anni, la nostra anima e la nostra coscienza ne giovano enormemente. E, permettetemi, ne abbiamo tutti un gran bisogno.
Vincenzo Matassa
Foto di Ramona Fernandez

venerdì 4 marzo 2011

HANK! live @ Catania

Non è di certo la prima volta che vedo gli HANK! In concerto, ma è di certo la prima volta che vedo questi “nuovi” HANK! Esibirsi sul palco. La differenza sta nel fatto che sono rimasti in tre, dato che la formazione registra l’abbandono da parte di Giuseppe D’Angelo e quindi dei synth.

Ed in effetti al primo impatto sembrano essere un po’ più nudi del solito, ma d’altro canto gli arrangiamenti si riempiono di suoni diversi, più maturi, e soprattutto finalmente esce prepotentemente la chitarra, portandoli ad una dimensione molto più punk rock e un po’ meno electro indie che io personalmente preferisco. A suonare sul palco ci sono quindi Agostino “Financo” Burgio, carico di una potenza più cattiva del solito, Claudio “Kloddy” Gambino con le immancabili Converse e i pantaloni stretti, e Francesco “Foggy” Pintaudi alla voce, chitarra e synth. E che qualcosa sia cambiata lo si vede anche sul palco dove, a differenza del solito, adesso la band si presenta con un’immagine più omogenea.

Che il loro sound sia cambiato lo si avverte particolarmente nella più lenta “Anche se non serve a niente”, che riesce a tirare fuori dalla nuova chitarra di Francesco dei suoni e delle melodie che uno non si aspetta.

La canzone che perde di più è di certo “Il palinsesto dell’amore”, che rappresenta un po’ il vero e proprio manifesto della band, ma la scaletta si arricchisce però di una bellissima versione soft di “In volo” e di un nuovo coinvolgente cambio di ritmo in “Quando ti vedo”.

Sono soprattutto le canzoni nuove a rappresentare meglio quelli che sono gli HANK! adesso, che non sono dei nuovi HANK!, quanto una band che ha maturato quelle che erano le potenzialità degli esordi. Bellissima la nuova “A.P.L.O.” con un accattivante uso del campanaccio ed un’intensissima parte strumentale finale e bella anche “Vivo male” che chiude il concerto.

Spiace solo trovarli in un locale così piccolo, in cui il pubblico sta seduto piuttosto che pogare e ballare come dovrebbe, soprattutto adesso con questa nuova potenza che hanno acquisito e che fa letteralmente tremare i pavimenti.
E dispiace soprattutto che non si riescano a cogliere le parole dei testi di Francesco e la sua tagliente ironia che non riesce ad abbandonare neanche quando parla con il pubblico.

Che vi piacciano o meno, che amiate o no il “punkammerda” ciò che si può dire in maniera oggettiva è che gli HANK! Hanno finalmente superato l’adolescenza.

mercoledì 2 marzo 2011

Miss Apple live @ Catania

Vista da lui.

La prima volta che ho ascoltato l'EP di Miss Apple ho pensato alla neve. Quella sensazione che ti pervade quando ti siedi sulla distesa ghiacciata e butti lo sguardo intorno. Ahimè, neve a parte, non ho mai assistito ad un concerto di Miss Apple, aka Rebecca La Mela, pur avendone avuto l'occasione. E ho sbagliato. Il riferimento alla neve non è affatto casuale e profeticamente appena entro nel locale il bianco candido delle pareti mi riporta subito alle sensazioni sopra descritte e il freddo di questa serata completa l'illusione. Arrivo con largo anticipo insieme a Raffaele Marsullo, già conosciuto come Wilda che stasera affiancherà Rebecca in qualche brano. Montiamo quel poco che occorre per la serata e pochi minuti dopo (un ritardo di mezz'ora, più che altro) giunge la protagonista dello show: Miss Apple.

Durante il breve soundcheck i due artisti suonando davvero di tutto, dai Pan del diavolo agli Oasis passando per i Rolling Stones. In realtà Raffaele non ha le idee ben chiare su cosa suonerà in quanto Rebecca ha proposto il featuring appena 24 ore prima. La serata comincia a prendere forma: arrivano gli avventori del locale e tra essi ce n'é uno anche molto particolare, Adam Ficek. Immagino che questo nome non vi suggerisca niente. Bene, i Babyshambles? Ok, lui sta dietro i tamburi per la band di Pete Doherty. La stanza in pochi minuti si riempie di gente appollaiata sui comodi pouf intenta a sorseggiare drink.

Rebecca imbraccia la sua EKO, l'accorda e da il via al concerto, mentre Raffaele seduto di lato, aspetta il momento di entrare in scena. Il concerto scorre via con tranquillità ma Rebecca è capace di creare una buona tensione emotiva, carica di empatia. La scaletta è formata quasi esclusivamente da brani originali contenuti nell'EP “Song from the north” e qualche bella cover eseguita in maniera personale e gustosa, con l'ausilio del fido Wilda alla seconda chitarra. Insieme hanno affrontato l'esecuzione di Wild Horses, storico brano dei Rolling Stones del 1971, Wonderwall e Don't Look Back In Anger degli Oasis, tutte eseguite con grande carica emotiva. E' stato facile notare come l'inserimento di una seconda chitarra abbia giovato notevolmente al sound di Miss Apple. Io, che non mi accontento mai, avrei visto molto bene anche un contrabbasso nell'ensemble. Avrebbe donato forse maggiore spessore e varietà a tutta l'esibizione.

Da riportare la proverbiale predisposizione a distrarsi di Rebecca durante il live: una mollica lanciata da un amico in mezzo al pubblico la fa imprecare nel bel mezzo del concerto e un altro amico -già, che amici!- la fa scoppiare a ridere durante un brano molto intenso. Segno che affronta il palco e il pubblico con un'ottima disinvoltura, questo è chiaro, ma la professionalità passa anche da queste cose. Una buona esibizione, affatto noiosa, ma il progetto deve crescere e deve rinnovare la sua proposta per trovare una maturità ancora non raggiunta.

Sono abbastanza certo che sia solo una questione di tempo.

Johnny Cantamessa


Vista da lei.

Per una sera Rebecca La Mela abbandona la consolle e ritorna musicista, ritorna alla chitarra, ritorna ad essere Miss Apple.

La t-shirt con la Union Jack tradisce quella che è la sua vera ispirazione, ma la sua chitarra preferisce parlare folk di stampo americano. Ed è proprio la sua chitarra a parlare meglio di quello che è il mondo di Miss Apple, molto più dei testi e della sua voce. “Songs from the noth”, il suo Ep, è fatto di canzoni introspettive supportate da una bellissima base armonica ed una chitarra capace di emozionare ad ogni accordo. E Miss Apple riesce ad evocare con le sue canzoni un passato musicale fatto di rock alla vecchia maniera, quello delle origini, ma sta pure ben attenta a non immergersi totalmente in esso, riuscendo a non sporcarsi troppo con i fantasmi del passato. È una musica che ti porta in una dimensione altra, ma che viene penalizzata da una voce con un timbro vocale non adatto. Belle canzoni se fossero cantate da qualcun altro o se Miss Apple decidesse di attenersi a toni più pacati e a note più basse abbandonando gli acuti.

A darle supporto musicale anche Raffaele “Wilda” Marsullo, coinvolto per riempire con il suono della sua chitarra la cover di “Wild horses” degli Stones. Ottima la scelta di proporre una versione soft di “Wonderwall” e di inserire la coinvolgentissima “Don’t look back in anger” degli Oasis, capace come sempre di innescare al pubblico un effetto karaoke immediato.

Eppure il concerto non ingrana. E la causa è soprattutto la distrazione di Rebecca, che canta le sue canzoni distrattamente e sembra quasi pensare ad altro. E di conseguenza l’attenzione del pubblico viene sviata e ti ritrovi a guardare i quadri nella sala e a chiederti che ci faccia un rettangolo di metallo avvitato al pavimento. Miss Apple sembra quasi non essere ad un suo concerto e si allontana dal microfono troppo spesso per salutare i suoi amici che vanno e vengono dal locale, scoppia a ridere per una smorfia di un suo amico e lascia distruggere il pathos che “Sea song” aveva creato per colpa di una mollica lanciata da un suo fan. Interruzioni continue che non fanno di certo bene ad un live.

Suonaci Amore di plastica” le chiedono dal pubblico.
Carmen Consoli si deve strozzare con una rana” risponde lei.

E Rebecca “Miss Apple” La Mela è pure questa.

Vanessa Castronovo

venerdì 25 febbraio 2011

Marlowe, reverberi di silenzio.

È una fortuna vivere in questo mondo, osservare un fiore, una nuvola vagante, ascoltare un uccello, il sussurro delle spighe in un campo di grano, ammirare i tratti delle persone, le loro tendenze, il loro respiro segreto”. Ingmar Bergman parla così della realtà.


Sembra che i Marlowe abbiano imparato magistralmente la lezione. Da ormai un decennio sono sulla scena e dopo aver collaborato con personaggi del calibro di Cesare Basile e Marcello Caudullo, sembra che con l'ultimo lavoro, “Fiumedinisi” abbiano finalmente trovato la loro dimensione ideale.


Pareti oscure e immerse nei ricordi, pensieri pesanti attaccati alle finestre e gatti accucciati su poltrone di pelle rossa, la band nissena assorbe la realtà e la rigurgita in un tripudio di forme. Mischia colori e dipinge con violenza sulla tela di uno shoegaze stanco. Non c'è rassegnazione, ma un processo lento di metabolizzazione della realtà.

Cercare riferimenti e somiglianze mi sembra alquanto inutile e fine a se stesso, buono solo per chi ama liquidare la musica in due battute. Sono profondamente convinto che ogni band, anche quando tenta di emulare suoni altrui, assorba diversamente la lezione musicale di chi l'ha preceduta.

La maggior parte delle influenze dei Marlowe le ritrovo più nelle altri arti che nei territori di Euterpe, ma per il semplice motivo che lo spessore della loro musica va ben oltre le 12 note e si rifà intensamente alla letteratura e al cinema d'autore (ecco spiegato il riferimento a Bergman). Ancora, i riferimenti letterari che partono proprio dal nome del gruppo, ovvero Marlowe, sono una duplice eredità letteraria: la prima da Philip Marlowe, personaggio di Raymond Chandler che si muove in ambienti ostili ed è affine al disprezzo dell'ordine. In seconda battuta richiama alla mente anche Christopher Marlowe: non meno estraneo all'amore degli ambienti ostili rispetto al personaggio di chandleriana memoria. Christopher adorava le risse e la sua figura ambigua e risoluta fu ripresa e ammirata durante il romanticismo, epoca dalla quale forse i Marlowe (quelli di Caltanissetta!) sono inconsciamente attratti.

Non è un disco facile quello dei nisseni, sia per testi che per la musica. Una perla nel panorama musicale italiano, dove ultimamente emergono artisti mediocri che vengono adulati solo perché suonano “strani” e spesso questo aggettivo rimpiazza con estrema facilità la parola “male”. Già, è una fortuna vivere in questo mondo.

Johnny Cantamessa

mercoledì 23 febbraio 2011

Locomotif live @ Catania

La prima cosa che voglio dire è che la valigia vintage di cuoio, presa a simbolo dalla band, esiste. E contiene l’aerosol della cantante.

Non è la prima volta che vado a vedere i Locomotif dal vivo, ma stavolta riesco ad assistere anche al soundcheck. Che potrebbe sembrare un momento morto, ma che è invece rivelatore di una moltitudine di cose che altrimenti passerebbero inosservate. Le dinamiche fra i membri della band ad esempio, o il loro modo di fare musica.

La sala è praticamente vuota, ma a Federica basta intonare qualche nota perché si riempia di eleganza. A vederla giù dal palco sembra essere la tua cuginetta, ma quando sale sul palco si circonda in maniera così accurata del fascino della sua voce che ti pare di trovarti una cantante francese degli anni ruggenti. La sua non è un’eleganza oldie, ma un modo diverso e più contemporaneo di trasmettere gli insegnamenti delle grandi del passato. Billie Holiday ad esempio, che indica come sua musa ispiratrice, ma poi pensi anche agli Zero7 e a quei suoni B-side capaci di portarti verso atmosfere diverse dal solito.

Oltre a Federica Faranda i Locomotif sono Luca Barchitta alla batteria, Gianluca Ricceri al basso e Carmine Ruffino al Rodhes. Parte integrante dei Locomotif è anche Sergio Sallicano, presente musicalmente come autore di tre delle canzoni del loro album Twimog (sue sono Twimog, Lost on the run e Drunken dreams).

Carmine mi viene indicato come il “dittatore” del gruppo, colui il quale si occupa di mantenere la direzione della band e a preoccuparsi che tutto vada come stabilito. “Sono molto preciso quando si tratta di musica, credo che debba essere fatta in maniera professionale anche se si tratta ‘solo’ di una passione. Non concepisco – continua – come si possa improvvisare sul palco. E’ invece necessario un approccio professionale che abbia cura del particolare”.

Non si tratta però di una dittatura che segna le scelte artistiche della band, che mi rivelano essere le più diverse e variegate. Al centro di tutto c’è però la voce di Federica e la sua formazione jazz, che necessita di un riguardo particolare al momento della composizione. “Eppure io mi sento quella un po’ a margine di tutto – confessa -. Nonostante siano loro a seguire me io a volte mi trovo in difficoltà perché le mie spiegazioni si risolvono in indicazioni generiche che il resto della band deve riuscire a seguire.”

È di Carmine pure la passione per il vintage rappresentata innanzitutto dalla famosa valigia-simbolo, ma anche dalla scelta di usare sul palco il Rhodes che mi spiega essere un piano elettromeccanico del peso di ben 60 kg. Uno strumento originale che ha riparato pezzo per volta durante il corso degli anni.

La loro musica è un crescendo costante che sembra voler esplodere da un momento all’altro, ma che si arresta proprio nel momento in cui ti aspetti un’apertura. Il risultato è un’eterna tensione e un clima di attesa quasi erotico che non si dispiega mai completamente, catturando completamente l’attenzione del pubblico. In questo clima si affacciano diverse influenze musicali che si nascondono un momento prima di venire captate. Fanno capolino momenti musicali diversi da loro, fra cui si riesce a scorgere anche drum&bass ed elettronica, ma che scompaiono subito dopo, inglobati come pesci dalle onde.

La scelta di non avere un chitarrista viene appunto da questo – mi spiega Carmine -. Oltre al fatto che per natura non riesco ad andare d’accordo con loro, la nostra è una scelta dovuta appunto a questo clima di tensione che abbiamo intenzione di mantenere. I chitarristi invece non riescono a trattenersi ed esplodono in assoli infiniti, facendo precipitare l’aspettativa che si era creata. L’esplosione non avvenuta è una nostra precisa scelta”.

Sul palco mancano le campanelle, suonate da Federica, perché il “re” le è stato rubato durante una serata precedente. “Io vorrei sapere che se ne fa la gente di una campanella” mi dice delusa.

A concerto iniziato la sala è piena e non sono più solo io con i musicisti. Ad un certo punto accade una cosa che, più di tutto il resto, è capace di spiegare quanto questa band sia capace con la sua musica di coinvolgere chi ascolta. Il pubblico comincia a zittire, con insistenza sempre maggiore, i pochi maleducati che stanno parlando durante il concerto. “Questa musica ha bisogno di silenzio” sento dire. A fine concerto il pubblico chiede il bis. E fin qui è tutto normale. Ma chiede anche il tris, che i Locomotif concedono finchè il “buonanotte” perentorio di Federica non pone fine al concerto.

E non è un caso che il concerto si concluda con “Passer-by che fra tutti i pezzi dell’album è quello che si “apre” di più, arrivando alla fine quasi ad esplodere e risolvere quel clima di tensione emotiva che tutto il concerto aveva creato. E quando sei lì, che ci sei quasi, la canzone finisce di botto. Lasciandoti lì così, come un cretino.

Come un amante abbandonato.