
Li ho attesi, aspettati, seguiti virtualmente in giro per l’Italia e ho esultato quando ho saputo che sarebbero venuti in concerto a Catania. I Pan del diavolo sono due palermitani, Pietro Alessandro Alosi e Gianluca Bartolo, , che sono riusciti a fare un disco (Sono all’osso) in cui più che un due sembrano essere un’orda di barbari.
Io mi faccio pizzicare prima del concerto a spiare la scaletta. Pietro spunta dal pubblico per cazziarmi poco prima di salire sul palco. Ha i capelli con la brillantina, una sobria camicia nera e scarpe a punta: un omino a modo direi.
La prima sorpresa della serata è la mancanza di Gianluca “Vabè più che Pan del diavolo sarà la mafaldina di Cerbero” dicono dal pubblico. Ma Pietro non si abbatte e sul palco comincia a suonare, cantare e battere sulla grancassa come se il destino di tutto il mondo dipendesse da questo concerto. Canta, soffre, balla, si incazza e scherza con il pubblico. Alla terza canzone è già sudato fradicio, con i capelli arruffati e la faccia sconvolta. Sul palco sembra esserci un branco di bufali e non una persona sola. Il pubblico è lì con lui che canta tutte le canzoni, gliele chiede, gliele invoca. Ma lui si svincola, cambia, ci ripensa. Nonostante le conoscessi tutte a memoria, quelle canzoni sul palco prendono nuova forma e nuova energia.
La mancanza della seconda chitarra di Gianluca però si avverte. Ci penserà Elvis ad aiutare questo one man show, entrando in scena per “Blu laguna”, del resto è con lui che si suona all’inferno. Ed è proprio a questo punto che comincia lo show nello show perché Elvis, al secolo Marco Monterosso (tour manager dei PdD), comincia ad appassionarsi al ruolo di musicista ed approfitta del palco per accompagnarlo in “Pertanto”. Richiamato ai suoi doveri di fonico continuerà però a suonare dietro al mixer mentre controlla i volumi fra un cambio di chitarra e l’altro. Non si accorge che molte delle ovazioni e degli applausi del pubblico sono anche per lui.
Sentire i loro pezzi in questo modo fa tutto un altro effetto, anche se penso che la loro dimensione ideale sia quella al chiuso di un palco più raccolto. La grancassa che ti spara alla pancia, il puzzo di sudore che arriva a zaffate fino alle prime file e la calca del pubblico la rendono però un’esperienza multisensoriale che vale la pena provare. “Non è così faticoso come sembra” scherza Pietro asciugandosi il sudore, ma la sua camicia nera è già fradicia e ne ho la prova quando all’improvviso mi si butta addosso durante “Farò cadere lei” (era una minaccia nei miei confronti?). Durante “Il boom” gli esplode una corda della chitarra “Che fa continuo con la chitarra scordata..” “SI” risponde una ragazza dal pubblico senza lasciarlo finire di parlare e lui ricomincia a suonare come se niente fosse, riprendendo la dose di carica dal punto preciso in cui l’aveva lasciata.
Il pubblico partecipa con una confidenza e un’intimità che non ho mai visto negli altri concerti, cantando tutte le canzoni senza però scomporsi troppo. Al momento del bis è Pietro che li prende in giro “Volete università vero?”: acclamazioni e grida dal pubblico, ma poi alla fine sarà l’unica canzone che non proporrà.
A fine concerto una ragazza mi ferma “Bellissimo concerto, certo i loro testi non li ho mai capiti e poi.. bella l’idea di prendere il primo che passava per suonare con lui sul palco!”
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