mercoledì 19 gennaio 2011

Pagine di diario (di una cantante in viaggio) - capitolo 1

Dalla mia stanza in affitto a Fort Greene (Brooklyn), dall’inizio del mio terzo mese a New York City, dal turbine di sensazioni ed esperienze di cui mi sto arricchendo, da un’idea maturata insieme all’amica Vanessa Castronovo… ecco le prime pagine di un diario che si propone essere a puntate casuali come la vita stessa.
Da tempo ormai ho la fortuna di viaggiare spesso, dissetando così la mia anima vagabonda e assecondando le mie propensioni. Per ciò ho proposto a Vanessa un diario a puntate, da ampliare man mano che mi si presenterà l’occasione di un nuovo viaggio.
Intanto si parte da qui, dalla Grande Mela, e mi sembra un ottimo inizio.
Ho sempre amato tenere un diario, anche se la costanza non è il mio forte. Non l’ho mai scritto però in forma pubblica per ciò mi imbarco con gioia in questa nuova esperienza, un viaggio nel viaggio nel grande viaggio che è la vita.



Capitolo 1 – New York City, Giovedì 6 Gennaio 2011

Mi accendo una sigaretta, và! Che fa molto “scrittore”.

Il cielo fuori dalla finestra ha preso i colori stupendi del tramonto americano, colori che ho visto solo qui. Dal momento dell’atterraggio a JFK, il 6 di Novembre 2010, mi sono chiesta come è possibile che il cielo qui si colori a strisce nette e fosforescenti, arancio e rosa. Persino le nuvole acquistano gli stessi toni. La giornata è cominciata poco luminosa, il cielo velato da un filtro opaco. Ora si è fatto pastello, e sembra un’alba.
Sto ascoltando “Diary” di Ralph Towner, mi è sembrato perfetto per l’occasione.

Sono a New York City da due mesi esatti e quello che ancora più mi stupisce è la sensazione di “casa” che ho provato fin dal primo giorno e che ancora mi accompagna, rinforzata e stabile ormai, nonostante le tante diversità di questa parte di mondo e i necessari momenti di smarrimento che una città tanto difficile impone.

È un posto bellissimo che ti costringe a misurarti con te stesso tutti i santi giorni, una tenera lotta quotidiana come in un rapporto amoroso, che trova riposo solo dopo aver preso fuoco e scavato profondi solchi per la via. Non so perché, ma camminare per le strade di Manhattan mi ha sempre calmato, anche nei giorni più bui, riempiendomi il petto di un inaspettato senso di appartenenza e stabilità. Non potevo certo immaginare di sentire mio tutto ciò, le strade trafficate, i marciapiedi brulicanti di abitanti-treno dal passo sicuro e di turisti spaesati ed estasiati fermi agli incroci, i palazzi e le scale antincendio, i grattacielo illuminati come nelle cartoline. Alzo spesso gli occhi mentre cammino, a rimirare le forme geometriche e caotiche e i tanti colori, ma sono occhiate fugaci con le quali rubo impressioni che subito conservo nella memoria. Non mi sono sentita una turista nemmeno una volta, e questo mi stupisce e mi rende orgogliosa per qualche ragione che ancora non conosco.

Sono venuta qui per cantare, il che fa di tutto ciò qualcosa di assolutamente magico. Sono arrivata convinta di restare per tre sole settimane. Tutto era stabilito: i quattro concerti (Little Italy, Long Island, Westchester e Downtown Manhattan), l’incontro con John T La Barbera, il chitarrista italo-americano che mi avrebbe accompagnata durante le esibizioni, le prove in New Jersey, le diverse case in cui avrei alloggiato. Ho incontrato John per la prima volta al Washington Park, ci siamo subito messi a suonare, così, su una panchina, la gente si avvicinava incuriosita, qualcuno si sedeva per terra davanti a noi e mi stringeva la mano augurandomi buona fortuna; alle 17:30 era già calato il buio ed un uomo che ci aveva ascoltati a lungo ha improvvisato un rap che mi ha dedicato… “Benvenuta a New York, baby!”

Ho vissuto per cinque giorni nel Queens a casa di una signora palermitana che vive qui da quasi quarant’anni, la Signora Giampino, e che si è comportata come una nonna; ho dormito per tre notti su un materasso gonfiabile in un bell’appartamento a Midtown insieme alla mia amica e angelo custode Olivia; ho passato una settimana nel Bronx e poi sono partita per Boston dove ho visitato il Berklee College of Music e festeggiato Thanksgiving con la famiglia di Olivia. Già prima di partire per Boston avevo preso una decisione: sarei rimasta più a lungo, non volevo andare via. Avevo conosciuto un ragazzo che mi aveva invitata a cantare qualche brano nel suo gruppo di musica elettronica che doveva esibirsi a Dicembre in giro per la città. È stata l’occasione che aspettavo, seppur inconsciamente, ed è stato così che ho mandato all’aria il mio biglietto di ritorno, fissato per il 28 Novembre, e ne ho preso uno nuovo per l’1 Febbraio. Il fatto che poi i concerti di Dicembre siano saltati in massa è un aspetto secondario della storia; ormai il danno era fatto e la mia vita newyorkese era iniziata davvero! E così, eccomi qui!

I concerti di Novembre sono stati per lo più fenomenali per via dell’accoglienza calorosa del pubblico presente. Immaginavo che portare in America il repertorio tradizionale siciliano sarebbe stata una bella esperienza, ma non immaginavo certo una tale reazione d’affetto e di stima, come se fossi arrivata a loro con le mani cariche d’oro. È stato un grande insegnamento umano e professionale che ha acceso in me un profondo senso di orgoglio che difficilmente ho potuto provare in Italia, se non in certe occasioni specifiche e magiche. Non voglio dire che qui negli States sia tutto rose e fiori, o che sia facile fare musica per vivere… Anzi! Qui spesso i locali non pagano, la concorrenza è altissima e la città di New York ha il vizio di spezzarti la schiena! Ma nonostante ciò il musicista viene accolto come persona di rilievo, come un messaggero di cose divine offerte all’umano, le cose divine del sentire, dell’emozionarsi, dell’apprendere. Lo stesso non avviene in Italia, dove spesso e volentieri il mestiere di musicista non è nemmeno riconosciuto come tale…

Laura Campisi

foto Claudia Ragusa

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